IL DORMIGLIONE: WOODY ALLEN “FUTURIBILE”




Ci sono luoghi sacri nel cinema, spazi di indiscusso pregio che portano la firma di personalità bizzarre, visionarie e geniali. Una di queste è Woody Allen, nell’immaginario collettivo quel folletto strambo che ci ha abituati a scenari di paradossale realismo/surrealismo.
Porta la firma di Allen uno dei pochi lungometraggi che se non si è conquistato la fama del pubblico si è certamente guadagnato uno spazio sacro nella storia del cinema, quel cinema che è storia di se stesso e summa del proprio linguaggio: si tratta de Il dormiglione del 1973.
Nel 2173 il corpo di un uomo (Miles Monroe), vissuto nel 1973, proprietario di un ristorante vegetariano e clarinettista di jazz, viene risvegliato da un gruppo di medici, dopo 200 anni, dallo stato di ibernazione in cui era stato messo per errore dopo un’operazione di ulcera.
Nel frattempo è scoppiata la guerra nucleare e il mondo è stato diviso in due blocchi, uno dei quali comandato dal "Grande Leader". Miles si finge un robot e riesce a fuggire, poi si unisce ai ribelli e penetra in un laboratorio dove tentano di clonare il leader con ciò che resta di lui dopo un attentato.
Con Il Dormiglione ci troviamo di fronte ad una delle prime prove registiche di Woody Allen, che si concentra qui su una riflessione metacinematografica, a metà tra la celebrazione e la riverente riproposizione. La trama, che fa il verso a tanto cinema fantascientifico, passa in secondo piano rispetto al dispiegamento di gags comiche, che vogliono essere palesemente omaggi a Buster Keaton, al Chaplin di Tempi Moderni, ai fratelli Marx e a quello slapstick che ha fatto la storia del cinema comico. Ne Il dormiglione si ride, a denti stretti però, perché questa parodia del fantascientifico è anche una irriverente satira politica e sociale che non può non ricordare 1984 di Orwell: omologazione dei cervelli, resistenza al potere, clonazione e controllo della sessualità.
L’incoerenza del ritmo e lo scollamento tra dialoghi e mimica sono un punto di forza in questo lungometraggio che, pur nella sua attualità, va contestualizzato agli anni in cui fu edito. La scelta dello stile slapstick ben si adatta agli ambienti “futuribili”, così li chiama il protagonista Miles/Woody, riproponendo quella plasticità un po’ goffa dell’uomo/robot del futuro. Così come la colonna sonora, che resta inquadrata nella cornice rievocativa che accompagna tutto il film. Ad eseguirla è lo stesso Allen (al clarinetto) insieme alla Preservation Hall Jazz Band e alla New Orleans Funeral Ragtime Orchestra.
Diane Keaton, nei panni della poetessa che insieme al personaggio interpretato da Allen si unisce alla resistenza, splendida ed esilarante, resta comunque una spalla nel gioco comico che ha come assoluto protagonista il giovane Woody Allen.
 Mimica eccellente, quella a cui ci abituerà con gli anni, naturalezza innata, tendenza alla metafora tagliente, insomma, il Woody Allen che con gli anni affinerà le sue capacità di sorprendere il suo pubblico, ma qui più che mai originale in un film che ha l’andamento del progetto ben pensato ma affidato, in perfetto stile Allen, alla spontaneità del suo genio creativo.

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